16 settembre 2010

Finalisti Premio Biblioteche di Roma sezione saggistica: Biblioincontri d'Autore



 
Umberto Galimberti, I miti del nostro tempo, Milano, Feltrinelli, 2009

GIOVEDI’ 11 NOVEMBRE ore 18.00 Biblioteca Sarti – P.zza dell’Accademia di S. Luca, 77





Gad Lerner, Scintille, Milano, Feltrinelli, 2009

GIOVEDI’ 25 NOVEMBRE ore 18.00 Tempio di Adriano – P.zza di Pietra
 introduce Maria Serena Palieri




Riccardo Staglianò, Grazie, Milano, Chiarelettere, 2010

MERCOLEDI’ 6  OTTOBRE ore 18.00 Biblioteca Sarti – P.zza dell’Accademia di S. Luca, 77,  introduce Bia Sarasini







Gad lerner, Scintille, Feltrinelli, 2009
Una storia molto avvincente, che compensa la fatica di leggere un libro solo apparentemente “pesante”.
Gad, bravissimo giornalista, diventa un valente scrittore nel narrare la storia della sua famiglia, di come lui e i suoi genitori riescono, grazie al caso, a non finire vittime della Shoah. E il racconto ci mostra subito la duplice nazionalità cui Lerner fa riferimento: di nascita è libanese, come la madre. Il Libano è la terra dove i suoi si sono sposati, dove è cresciuta la madre, Tali. Ma – ovviamente – Lerner si sente ebreo, come il padre (il vero Lerner, come soleva dirsi suo padre  Moshe). E la storia ha inizio proprio a Beirut, sulla splendida via detta “la Corniche”, credo una sorta di lungomare, a quanto si vede in una delle fotografie.
La cosa che trovo splendida, a me – non ebreo ma da sempre attratto da tante caratteristiche riscontrate in tutti gli ebrei che ho conosciuto, prima tra tutte l’intelligenza e l’amore per la cultura – in questo libro, è la profondità in cui si è sommersi man mano che si procede nella sua lettura. Profondità di pensiero, prima di tutto. Gad effettua un viaggio, che lo porta prima in Libano, poi in Israele ai tempi della guerra tra Israele e confinanti (Libanesi, Palestinesi…) – viaggio effettuato in parte con l’aiuto del contingente Italiano presente in Libano – e infine (non ricordo se quest’ultima parte del viaggio è stata effettuata in un tempo diverso) in Galizia, alla ricerca delle tracce dei suoi nonni, trucidati ai tempi delle persecuzioni degli ebrei polacchi, di cui è originario il ceppo dei Lerner.
Ci sono, nel libro, delle “costanti” che caratterizzano tutta la storia: il perpetuo “esodo” degli ebrei è spiegato dall’autore con il comandamento “Lech lechà”, che vuol dire qualcosa del tipo: “lascia la casa del padre”. Un concetto bellissimo, che viene fuori dalla visita dei luoghi della Galizia, è quello del gilgul, che significa “anima vagabonda”, e che riecheggia il comandamento precedente. L’autore percepisce in un bosco vicino alla cittadina di Boryslaw, non lontano da Leopoli, questo girovagare di anime nei luoghi propri degli stermini nazisti e russi degli ebrei locali.
Non voglio raccontare tutta la storia, che è piena di considerazioni personali di Gad (il nome con cui il padre lo chiamava da bambino era Dadone), della sua vita, del suo buon rapporto con la madre (intuito, più che descritto) e del suo pessimo rapporto con il padre, di cui però Gad accusa proprio il genitore stesso. Voglio però insistere su alcuni aspetti della religione ebraica, forse presenti molto chiaramente in questo libro, e non trasparenti in quasi nessun altro autore di religione ebraica (come Primo Levi, ad esempio, e tanti altri ebrei italiani). Pur senza dirlo apertamente, il modo in cui Gad parla del suo essere ebreo, fa trapelare l’aspetto religioso come fondamentale, per un ebreo, senza che questo sembri – come per altri autori – un tratto essenziale dello status del Lerner scrittore e giornalista, e senza che questo porti fuori problemi di cittadinanza culturale, etnica e politica.
Etnicamente, Lerner sottolinea il sentirsi piuttosto cittadino italiano, anche se rimprovera le leggi italiane di averci messo trenta anni a concedergli la cittadinanza. E questo lo fa anche affrontare la storia che racconta – in fondo la storia della sua vita – con l’entusiasmo tipico di un italiano, anche quando parla di cose spiacevoli, come la scoperta, non completamente verificata, della fine dei nonni materni e dei bisnonni. Il libro si fa leggere agevolmente, pur essendo un libro personale che racconta una vicenda molto personale e quindi non condivisibile completamente come una altra storia o saggio letterario qualsiasi. E la storia diventa sempre più avvincente, proprio per un lettore che non conosce la materia dell’ebraismo.
A proposito del quale, a differenza di altri testi che presentano la Shoah, o fatti ad essa collegati, l’autore qui ci fa sentire come sia per lui doveroso il pensiero ai suoi parenti defunti, e riporta un bellissimo esempio di preghiera ebraica verso i defunti, il Kaddish (che potrebbe essere l’equivalente del cristiano Requiem aeternam), che è già di per se un esempio struggente di come il pensiero delle “anime vagabonde”, provato dall’autore nelle terre galiziane, ove appunto pare che siano scomparsi alcuni dei suoi nonni, sia già in sé una preghiera, cui il kaddish aggiunge l’aspetto realmente religioso. Mi sono trascritto il kaddish, per la bellezza del concetto che ne è alla base.

(Lavinio Ricciardi   - Circolo dei Lettori della Biblioteca Villa Leopardi)


Riccardo Staglianò, Grazie, Chiarelettere, 2010
Ecco perché senza gli immigrati saremmo perduti, dice il sottotitolo del libro, che in ventiquattro capitoli esplora il mondo delle attività economiche che impiegano mano d'opera straniera. Staglianò non usa parole che parlano al cuore e alla coscienza del lettore, come accoglienza e solidarietà, parla invece di qualità della vita (la nostra e la loro), di capacità di adattamento a lavori fastidiosi e maleodoranti (che noi ci rifiutiamo di fare), di persone in grado di sacrificare anni della loro vita per consentire a noi di vivere la nostra. Per far questo l'autore non usa statistiche né categorie generali come popolazione, tassazione e occupazione, ma racconta storie, perché è solo narrando una storia che la comprensione diventa globale e la memoria indelebile.
Benur che fa il pescatore a Mazara del Vallo, Roman camionista nel nord est, i raccoglitori di frutta in Trentino e di verdura a Caserta, i cavatori di pietra in val di Cembra, Bureim conciatore nel vicentino, gli inservienti sikh negli allevamenti di bovini, i macellai nelle industrie dei polli AIA a Nogarole Rocca, gli operai nelle fonderie nel bresciano, gli africani che fanno raccolta differenziata manuale a Vedelago in un'azienda premiata dall'Unione Europea. Storie di persone che lavorano nel nostro paese per il nostro paese. Senza di loro tante attività economiche dovrebbero ridimensionarsi drasticamente, o delocalizzarsi in paesi a basso costo di mano d'opera, oppure chiudere e basta. L'indotto crollerebbe. Sarebbe la povertà per intere regioni del paese.
Senza badanti, infermieri, addetti alle pulizie, facchini nelle imprese di spedizioni, tate e colf, la vita quotidiana di tutti noi finirebbe nel degrado.
Ventiquattro capitoli perché ciascuno corrisponde a un'ora della giornata, offerta agli italiani dagli stranieri. Senza dimenticare i calciatori (un terzo dei professionisti in serie A è straniero), i preti (in Umbria il 50% dei preti sotto i quarant'anni non è italiano) e le prostitute (straniere il 98% del totale).

(Rita Cavallari - Circolo dei Lettori della Biblioteca Villa leopardi) 

Finalisti Premio Biblioteche di Roma sezione narrativa: Biblioincontri d'Autore


Mariolina Venezia, Come piante tra i sassi, Torino, Einaudi, 2009

VENERDI' 15 OTTOBRE ore 18, Tempio di Adriano - P.zza di Pietra, introduce Francesco Erbani 





Lia Levi, La sposa gentile, Roma, Edizioni e/o, 2010

GIOVEDI’ 18 NOVEMBRE ore 18.00 Tempio di Adriano – P.zza di Pietra, introduce Francesco Costa





Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, Milano, Mondadori, 2010

MARTEDI’ 30 NOVEMBRE ore 18.00 Biblioteca Sarti – P.zza dell’Accademia di S. Luca, 77, introduce Simonetta Bartolini







Mariolina Venezia, Come piante tra i sassi, Einaudi, 2009 
E' il sogno di tutti gli scrittori, creare un Personaggio come il commissario Maigret, Hercule Poirot, Miss Marple, la signora in giallo, Salvo Montalbano. Poi basta un nulla, due righe sul giornale, una notizia in cronaca, farmacista a Murinissi uccide la badante, e voilà, il libro è pronto in un batter d'occhio. I lettori si affezionano al Personaggio, ne seguono le avventure, lo amano.
Anche Mariolina Venezia ci prova, con il sostituto procuratore Imma Tataranni, una quarantenne alta come un soldo di cacio, che ha i capelli tinti color rosso carota, un viso da luna piena e tacchi dodici centimetri con cui, nei sopralluoghi all'aria aperta, spiaccica senza pietà i poveri lombrichi.
Il procuratore Tataranni proviene da una famiglia povera, a scuola non ha mai primeggiato, ma ciò nonostante è riuscita senza appoggio alcuno a costruirsi una invidiabile carriera. Veste incredibili tailleurini cuciti da sua madre, presumibilmente molti anni prima, visto che ormai sua madre è persa dentro di sé e quando vede la figlia le chiede chi sei? Ha un marito innamorato e un po' bietolone, una figlia con le crisi adolescenziali, una suocera pestifera e tutta una corte di personaggi di contorno, compreso un fido appuntato che oltre ad essere belloccio non è neanche stupido. Il tutto ambientato in Basilicata, tra tombaroli, Indiana Jones a caccia del tempio di Persefone, rifiuti tossici smaltiti fuori legge, vecchi fricchettoni seguaci di filosofie orientali.
Che dire? La figura di Imma Tataranni non è ancora messa a punto perfettamente, sembra costruita con molta tecnica e poca empatia. Dà l'impressione di essere nata come personaggio maschile e di essere poi stata riconvertita al femminile. Ma non basta far sì che pensi al cambio di stagione o alla spesa perché un personaggio diventi una donna credibile, né vale farle indossare accessori leopardati. Insomma, Imma non mi convince, ma può migliorare.
La trama scorre senza intoppi e senza colpi d'ala. Aspettiamo al varco la prossima impresa.

(Rita Cavallari - Circolo dei Lettori della Biblioteca Villa Leopardi)


E’ un giallo, quasi un thriller? Così appare, questo libro, ad un accanito lettore delle storie del Commissario Montalbano di Andrea Camilleri.
E invece è un libro a mio avviso molto più profondo e bello, non privo di spunti che sicuramente definirei autobiografici, e pieno di affetto e comprensione per i caratteri del suo profondo sud, la Basilicata, la provincia di Matera.
La scrittura della Venezia è giovane, piacevole, e piena di fascino, a pensare alla Dottoressa Immacolata Tataranni, magistrato della procura di Matera, che racconta in prima persona – o quasi – i suoi pensieri, mentre fa le indagini, e anche quando non le fa. E qui c’è un primo contatto col personaggio Montalbano.
La storia appassiona, fa subito gola al lettore. Ma anche chi non pensa mentre legge, avverte che nel libro non c’è solo la storia. C’è appunto tanta autoanalisi. Fino alla quasi cotta per il suo appuntato prediletto, che la asseconda in ogni richiesta e che la comprende con una semplice occhiata.
E così, di capitolo in capitolo, si corre appresso agli indizi, e si resta delusi – assieme ad Imma – quando gli indizi restano labili, e magari non portano dove si voleva arrivare.
Il libro è estremamente piacevole, e la sua lettura scorre via veloce. Forse occorrerebbe leggerlo tutto d’un fiato, ma non è semplice farlo, Infatti, pur se il linguaggio è scorrevole, la vicenda non è proprio facile da intuire o da indovinare, e i ragionamenti del magistrato Imma non sempre si seguono subito.
Finché, quando pare che l’indagine sfugga di mano ad Imma, e l’abilità della Venezia sposta l’interesse del magistrato – solo in apparenza – su un’altra vicenda che, guarda caso, la riporta sul luogo del delitto, si intravede il finale. Bellissimo, inatteso, e forse estremamente improbabile. Ma descritto magistralmente, quasi che la “suspénce” dovesse incrementarsi ad hoc, per questa scena, senz’altro la scena madre del libro.
E l’abilità della scrittrice si palesa nel ricordo di un’esperienza scolastica che sfocia in un pensiero di Imma che origina poi il titolo del libro stesso.
Un libro la cui lettura è solo da consigliare.

(Lavinio Ricciardi - Circolo dei Lettori della Biblioteca Villa Leopardi)


E’ un bel romanzo che sostiene, per chi non lo avesse ancora capito, di quanto bisogno ha l’Italia di più consistenti forze di polizia, di magistrati coraggiosi e ostinati, e di meno politica corrotta e corruttrice.
Lettura piacevole e utile al tempo stesso,  consigliabile a tutti perché  non è tempo speso male. Disorienta talvolta lo stile di scrittura che certamente non è manzoniano.

(Pietro Benigni - Circolo dei Lettori della Biblioteca Villa Leopardi)



Lia Levi, La sposa gentile, e/o, 2010
Il romanzo tratta in modo elegante e scorrevole il dramma che scaturisce dalla diversità religiosa nell’ambito della coppia e dalla impossibilità per l’interprete femminile - cristiana – di diventare ebrea perché “si può solo nascere ebrei ma non diventarci”. L’autrice evidentemente si pone in posizione fortemente critica   nei confronti di queste concezioni elitarie e razziali dell’ebraismo, cercando di dimostrare quanto arcaiche esse siano e come possano e debbano essere superate. Probabilmente il tema viene affrontato nella consapevolezza di quante vite, di ebrei e di non ebrei, siano state rovinate da questi precetti, cercando di dare un contributo affinché queste residue barriere alla libertà umana vengano abolite.
Certamente, chi non è ebreo può non avvertire il problema, e quindi giudicare il romanzo solo un bel ritratto di un momento della storia italiana. Se poi si pensa che il cristianesimo è figlio dell’ebraismo (Gesù era ebreo, gli apostoli e gli altri seguaci erano ebrei, e non è del tutto dimostrato che Gesù volesse rinnegare l’ebraismo e fondare una nuova religione ma forse voleva solo integrare l’ebraismo introducendovi il perdono) si può anche provare un senso di fastidio verso questi atteggiamenti di esclusione che il popolo di Israele tiene nei confronti dei “diversi” e affermare che il tema del romanzo dovrebbe essere già superato, morto e sepolto.
Purtroppo non è così: anche se i filosofi, e anche alcuni teologi, sostengono la necessità della libertà religiosa e dell’integrazione fra i popoli,   l’intolleranza fra religioni e culture diverse, nell’ambito della famiglia, della società o addirittura fra Stati, continua a creare all’Umanità un’infinità di sofferenze. Questo rende il romanzo ancora vivo e attuale.

(Pietro Benigni - Circolo dei Lettori della Biblioteca Villa Leopardi)


Questa settimana ho letto “La sposa gentile” di Lia Levi. E’ stata una lettura piacevole, scorrevole e tranquilla. La storia è scritta bene, il ritmo è pacato e lo stile, anche se a volte può apparire ridondante, ben s’adatta all’inizio del secolo scorso e all’ambiente dell’alta borghesia ebraica. Della famiglia, per esempio, si dice: “…quell’alveare brulicante di affetti, aspettative, rancori sotterranei… una parte importante della sua vita.” (pag.66). Di Margherita, “… con quello sguardo sempre disposto ad accarezzare il mondo...”, dopo la delusione amorosa, si dice: “ora del mondo contemplava solo gli stagni di tristezza…”. Amos Segre è un banchiere ebreo che s’innamora di una ragazza non ebrea e decide di sposarla nonostante il parere nettamente contrario della famiglia e nonostante le diversità di cultura e ceto sociale. E proprio lei, Teresa, è la protagonista principale, la sposa gentile. Una donna positiva e coerente, una “innocente festosa creatura” che possiede una naturalezza e un buon senso comune che la rende speciale. A pag 159 si parla del suo rapporto col marito: “Cosa c’era a tenerli ancora così fortemente e arcanamente uniti? I sensi da soli non potevano bastare. Glielo chiese e Teresa disse…Mah…io voglio sempre che lui sia contento. E anche lui lo vuole per me. Gli altri matrimoni forse sono fatti di tante cose in più, ma a me sembra che questa cosa se la dimenticano.” Una donna nata in una famiglia povera e poco accogliente che si innamora di un uomo che saprà darle amore e benessere, un uomo per il quale è disposta ad abbracciare le tradizioni e la dottrina ebraica. E’ un esempio di riconoscenza e dedizione di una donna ad un uomo. Lei non si converte ma si adatta, perché sa quanto quella tradizione non sua sia importante per il marito. Lei vive con lui, per lui e alla sua ombra e quando lo perde, si sente persa. Leggiamo a pag. 208 “…dal suo corpo era fuggita l’anima……non quella di filosofi o degli uomini di fede ma quella che dà un senso preciso alle umili cose di tutti i giorni, come lo stoppino a una candela o la pila che permette di accendere una torcia. La candela se ne stava là, confitta nel bel candelabro d’argento, e si sarebbe accorto che senza il suo stoppino non avrebbe mai più fare luce?”.Teresa alla fine del libro, non pare più interessata alle tradizioni ebraiche, tanto che riappare sul comò della sua camera da letto quella Madonna che era stata sistemata fino ad allora in secondo piano.
E' una storia d’amore un po’ travagliata ma tutto sommato abbastanza normale e prevedibile, dove primeggiano le tradizioni e i personaggi dichiarano e dimostrano emozioni e valori.  Il libro di Lia Levi raccontando la storia descrive persone e sentimenti favorendo un nostro coinvolgimento in relazione ad un giudizio sui personaggi.

(Luciana Raggi - Circolo dei Lettori della Biblioteca Villa Leopardi)



Antonio Pennacchi, Canale Mussolini, Mondadori, 2010
Le storie non le inventano gli autori, ma girano nell'aria cercando chi le colga. E' scritto così nelle prime righe di Canale Mussolini, e pare proprio di vederle, nel corso del racconto, le storie. Volano tra gli eucalyptus piantati lungo gli argini dei canali, ronzano come le api dell'Armida, e quando trovano qualcuno che sappia coglierle e raccontarle, si spiegano, si sgomitolano, si allargano e si allungano. Prendono la forma del filò, come si usava nella società contadina, nelle stalle durante le sere d'inverno, intorno al fuoco.
Un narratore che racconta grandi imprese, gli eroi che vanno in cerca di gloria, famiglie intere che lasciano le loro contrade, ben sapendo che non torneranno più. Per sempre. Una terra inospitale, regno della terribile zanzara anofele, da sottomettere e dominare, perché possa dare pane e cibo. Sono le paludi pontine il cuore vivo e pulsante di questo potente romanzo epico, che segue le vicende dei Peruzzi, una famiglia contadina della bassa padana giunta nelle terre di bonifica sotto la spinta della fame. Perché in Italia, ottant'anni fa, la fame era ancora una terribile realtà.
Il narratore, nel corso della storia, divaga, si interrompe, riprende il discorso, si ripete. Il lettore si rassicura. Se, nel corso di ben 450 pagine, con una miriade di personaggi, ogni tanto dovesse perdere il filo inciampando in un nome che non si ricorda ben chi sia, nessun problema. Il narratore lo sa che vicino al fuoco le palpebre si abbassano e gli occhi si chiudono per un attimo. Così ripete, sull'esempio degli antichi aedi.
E poi spiega, senza pedanteria, i grandi eventi della storia, come sa raccontarli un vecchio contadino nella stalla, al tepore delle mucche che agitano la coda. Le lotte contadine, l'avvento dello squadrismo, la sottile linea di discrimine che separa socialisti e fascisti, il biennio rosso, la marcia su Roma, le lotte interne tra i gerarchi, la conquista dell'impero, di tutto il narratore racconta, fino a perdersi nei particolari, come succede quando si chiacchiera per tirar tardi, poi tira le fila e procede nella storia.
Le paludi pontine non esistono più. Il sistema dei canali, la piantumazione degli eucalyptus, le opere di bonifica, hanno trasformato la “piscinara” in terreni fertili. Al termine della lettura mi sono chiesta quanto durerà tutto questo, se non verrà un giorno in cui le acque salmastre riconquisteranno il territorio e la zanzara anofele tornerà a regnare. E' il narratore stesso che semina il dubbio, quando dice che, con lo scioglimento dell'Opera Nazionale Combattenti, ciascun assegnatario dei poderi ha potuto fare di testa propria, e per prima cosa ha tagliato gli eucalyptus. In questo modo sono state eliminate le barriere frangivento e per questo devastanti trombe d'aria si abbattono periodicamente sulla pianura pontina. E' forse la prima avvisaglia di una controffensiva delle forze della natura.
Anche lo strano idioma dei coloni, un misto di veneto, ferrarese e friulano, scomparirà col tempo. Come nella poesia Filò di Andrea Zanzotto, solo gli uccelli resteranno a parlarlo, nell'ombra, sull'ultimo ramo. E solo le api di Armida resteranno a cantare l'epopea dei Peruzzi.

(…)
Ma ti vecio parlar, resisti. E si anca i òmi
te desmentegarà senzha inacòrderse,
ghén sarà osèi -
do tre osèi sói magari
dai sbari e dal mazhelo zoladi via -:
doman su l’ultima rama là in cao
in cao se zhiése e pra,
osèi che te à in parà da tant
te parlarà inte’l sol, inte l’onbria.
(…)
Ma tu vecchio parlare, persisti. E seppur gli uomini
ti dimenticheranno senza accorgersene,
ci saranno uccelli -
due tre uccelli soltanto magari
dagli spari e dal massacro volati via -:
domani sull’ultimo ramo là in fondo
in fondo a siepi e prati,
uccelli che ti hanno appreso da tanto tempo,
ti parleranno dentro il sole, nell’ombra.
Andrea Zanzotto, Filò

(Rita Cavallari - Circolo dei Lettori della Biblioteca Villa Leopardi)


Voglio raccontare qui le mie impressioni di lettore. “Sic et simpliciter”. Come mi vengono.
Spesso, infatti, considero questo scrivere “recensioni” quasi come un compito. Non lo dico perché mi pesi, ma soltanto perché, ogni volta che leggo le cose scritte in questo spazio da tutti gli altri lettori, ho la sensazione che i miei pezzi siano più scolastici di quelli degli altri. Così, questa volta, cerco di cambiare.
All’inizio della lettura, ho trovato il libro un po’ pesante. Non fa parte della saggistica, e difatti è un romanzo – anche se considerarlo solo romanzo mi pare un po’ riduttivo – eppure mi ci sono volute 60, 70 pagine per riuscire ad ingranare nella storia, a scenderci dentro.
Poi, la lettura è diventata più piana e scorrevole, soprattutto perché la storia, meglio “la saga”, della famiglia Peruzzi si è fatta più interessante.
Il racconto è di quelli che – a d uno come me, che ha passato una splendida vacanza campagnola a Pontinia, nel casale di un collega di mio padre, con i suoi figli Tato e Rita (lei un po’ più grande di me, il fratello coetaneo o forse di un anno più grande) – fanno tornare in mente i diciotto anni. E allora, un po’ per questo mood, un po’ per cambiare l’andazzo di queste cronache di lettura, alle quali pensavo mentre leggevo, mi sono lasciato prendere, e quindi appassionato alla vicenda.
Soprattutto, una cosa mi ha attratto molto della narrazione (l’autore interpreta un io narrante che racconta a chi legge la vicenda di questa famiglia, e nel bellissimo finale, si ha la conferma che quella famiglia fosse la sua): è stato il dialetto che i personaggi adoperano nel parlare tra loro. Un dialetto ibrido, misto di veneto, friulano e ferrarese. Dialetto col quale Pennacchi da ai personaggi il loro colore, le loro personalità. E forse in questo, Pennacchi dimostra uno stile speciale, un po’ come Camilleri con il commissario Montalbano. Uno stile, appunto, pieno del tratto di chi abita quelle terre, o vi è vissuto.
E tutta la vicenda fa immaginare cosa debba aver provato chi è stato costretto ad abbandonare la propria terra natia e venire a lavorare in un'altra regione, molto diversa, e con abitanti che dileggiavano proprio il loro modo di parlare (“i cispadani”, li chiamavano).
Il libro è la famiglia Peruzzi: i nonni, cioè i capostipiti, poi tutti i figli (Temistocle e Pericle, i protagonisti, i più presenti, ma poi anche Adelchi, e infine – protagonista anche lei – Armida, la moglie di Pericle). Come sempre non voglio raccontare la storia, per non togliere il gusto a chi legge il libro.
La seconda caratteristica è l’aspetto di documento storico che il libro presenta, raccontando vicende che la maggior parte di noi non conosce, anche se quei tempi li ha vissuti. A guardarlo come romanzo storico, questo libro lo accosterei per importanza a “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, e a “I vicerè” di De Roberto. Sicuramente non è da meno di quei romanzi nel descrivere i tempi di cui racconta, con la differenza che parla dei tempi nostri, quelli che abbiamo vissuto senza conoscerli, proprio perché scuola ed altre fonti ce ne hanno parlato sempre poco,
La caratterizzazione che del fascismo (nascita e sviluppo) viene fuori dal racconto è stata per me molto nuova: debbo dire che – dal lato storico – sono discretamente ignorante. E questa caratterizzazione ha gettato su quel periodo una luce molto diversa dalle iconografie che ciascuno di noi, al di là del suo credo politico, ha in mente. Ne viene fuori un regime come gli attuali, vissuto attraverso i discorsi dei Peruzzi. Un regime bonario, che si conquista l’amicizia di gente povera e che fa loro pensare di averli beneficati in un momento difficile della loro vita di contadini.
Ma questa caratteristica è resa ancor più intima – e forse più credibile – dal fatto che i nonni Peruzzi conoscevano il Mussolini, che li veniva a trovare – prima di diventare il capo del governo, da socialista – perchè affascinato dalla nonna Peruzzi. E dal fatto che uno dei fratelli – mandato a dar lezione ad un prete troppo buono coi poveri si trova coinvolto nel suo omicidio.
E’ però pur sempre la prima delle due caratteristiche – quella che me lo farebbe definire un romanzo storico dialettale – a prevalere, sia nelle vicende che portano i due figli Peruzzi a partire per la guerra d’Africa, dalla quale ne torna uno solo, Adelchi, mentre il Pericle scompare, e di lui non si sa più nulla. E l’attenzione, da qui in poi, si sposta sull’Armida, che diventa vera protagonista della terza parte del libro. L’Armida e le sue api – le “appi”, nel dialetto della famiglia – con le quali lei addirittura parla, interpretandone i ronzii come risposte…
È questa caratterizzazione dei personaggi a rendere il libro bellissimo, a mio avviso, e a farne alla fine un vero capolavoro da semplice narrazione della vita di un gruppo sociale contadino, negli anni dal 1920 ai primi anni ’50. Un libro che va letto, e che merita i premi che ha già cominciato a prendersi, come lo Strega di quest’anno.
 

(Lavinio Ricciardi - Circolo dei Lettori della Biblioteca Villa Leopardi)